Didattica a Distanza, seconda ondata


Didattica a Distanza, seconda ondata

di Maurizio Mazzoneschi
A quanto pare, come nella prima ondata della pandemia di Covid-19, il MIUR e, quindi la scuola, si è fatto trovare impreparato da diversi punti di vista. Da quello della progettazione didattica: il blended learning ha la stessa necessità di progettare le attività didattiche della DaD o della didattica in presenza, anzi forse di più; dal punto di vista dell’utilizzo dei dati: per la verità la questione si è aggravata, perché nel frattempo la Corte di Giustizia Europea ha invalidato l’accordo, detto “Privacy Shield”, tra l’Unione Europea e gli Usa; infine anche dal punto di vista del software libero.

questo articolo è pubblicato in "Formare... a distanza?", II edizione, C.I.R.C.E. novembre 2020

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Progettazione didattica
Il blended learning in una situazione “normale” prevede una buona dose di didattica in presenza e una dose di e-learning durante la quale gli studenti possono approfondire i contenuti che sono stati trattati durante le lezioni in presenza, opportunamente caricati e categorizzati nella piattaforma, oppure possono utilizzare gli strumenti di collaborazione per produrre in maniera condivisa nuovi contenuti, o ancora: potrebbero utilizzare gli strumenti di comunicazioni dedicati alle chat, videochat, forum (per quanto il termine sia un po’ fuori moda, lo strumento forum non è stato sostituito da altre novità tecnologiche per poter discutere su argomenti strutturati) per momenti di confronto con gli altri studenti e/o con i docenti.
Nella situazione attuale la didattica mista è intesa principalmente in due modi: metà studenti sono in classe con il professore e metà a casa ad assistere alla lezione tenuta dal docente; oppure tutti a casa (studenti e docenti) e il docente fa lezione attraverso una piattaforma di video conferenza. Quest’ultima situazione è nella sostanza ciò che è accaduto durante il lockdown di marzo e aprile del 2020.
In entrambi i casi la progettazione didattica dovrebbe tener conto della situazione in cui avviene il processo di apprendimento.

Nel primo caso, metà a casa e metà in classe, l’indicazione del Ministero sembra essere di inviare il video della lezione dell’insegnante, ripreso da una webcam posizionata in classe, dove sono anche una parte di studenti, in una videoconferenza alla quale si collegano coloro che si trovano a casa. Le limitazioni per tutti sono molto chiare: in classe non ci si può muovere molto, pena uscire dall’inquadratura o dal cono del microfono; da casa bisogna stare concentrati e in silenzio cercando di seguire ciò che avviene in classe. Non si tratta di una situazione adeguata a mantenere la concentrazione, né a costruire le condizioni per una didattica non dico collaborativa, ma almeno che non crei problemi di comprensione quando il docente parla. Sarebbe interessante rovesciare la prospettiva: da casa gli studenti potrebbero tenere la lezione alternandosi negli interventi, ovviamente coadiuvati dall’insegnante, mentre in classe potrebbero attivare una regia audio-video e produrre in questo modo contenuti che andrebbero ad arricchire l’impianto didattico della classe.
Naturalmente è solo un’idea che va progettata per bene, ma l’ambiente tecnologico, allo stesso modo di quello fisico, è qualcosa che condiziona fortemente la didattica. Non tenerne conto significa non sfruttare le opportunità e soprattutto accettare i limiti del caso.

Del secondo caso (quello del tutti a casa), abbiamo lungamente scritto negli articoli raccolti nella prima edizione di “Formare a Distanza?”. Purtroppo non sembra essere cambiato molto: nella videochat viene riproposta la lezione frontale, probabilmente peggiorata dall’assenza dei corpi, invece che progettare attività che cambino l’assetto didattico: far preparare le lezioni ai ragazzi, che a turno da casa potrebbero presentare la lezione ai propri pari, chiedere di collaborare a distanza agli studenti, organizzare il lavoro in gruppi, costruire una casa digitale comune che sia gradevole, inclusiva, accogliente (vedi: "II. Per un setting nel digitale inclusivo e accogliente" Da: “Formare a Distanza?”, Davide Fant ~ Inventare formazione con adolescenti distanti ~ CC 4.0 (BY-NC-SA)), comprendere i problemi e le possibili opportunità del digitale.

In entrambi i casi, la progettazione didattica non si dovrebbe avvalere esclusivamente della videochat, che spesso è considerata essa stessa la piattaforma per la didattica a distanza. In realtà non è così: la videochat è una parte dei tools tecnologici necessari all’e-learning. Non è un caso che persino nel sito del Ministero dell’Istruzione le tre piattaforme consigliate siano delle suite. Lo è la suite di Google, quella di Microsoft (Office 365) e lo è Weschool. Evidentemente scambiare la videochat/videoconferenza per piattaforma di Didattica a Distanza è il sintomo chiaro della malattia: non c’è progettazione didattica che tenga conto delle potenzialità e dei limiti delle tecnologie per la didattica a distanza (vedi: “Piattaforme queste sconosciute” di Stefano Penge). L’esperienza ci insegna che per un percorso di apprendimento proficuo, pur se a distanza, oltre allo strumento della videochat, saranno necessari gli strumenti per la collaborazione, per la comunicazione asincrona (la posta, la bacheca condivisa, il forum), per l’archiviazione condivisa di documenti.

Dal punto di vista dei contenuti didattici, inoltre, abbiamo assistito alla caccia a contenuti utilizzabili per la Didattica a Distanza. Non tutti i docenti hanno la possibilità/capacità di realizzare dei contenuti ad hoc per le proprie lezioni a distanza, ed ecco in soccorso il learning object.
L’oggetto di apprendimento (Learning Object), considerato come un piccolo frammento di contenuto didattico autoconsistente e utilizzabile in più contesti, da una parte aiuta gli insegnanti nella progettazione di interventi didattici che non siano la riproduzione della lezione frontale attraverso le videochat, ma dall’altra rappresenta un ulteriore mattoncino verso la valutazione dell’apprendimento misurabile numericamente in funzione dell’analisi dei dati sulla fruizione dei contenuti degli studenti. Un Learning Object è concepito come una unità informativa che può essere comunicata allo studente più e più volte, al di fuori del contesto di apprendimento e spesso anche di dominio. L’utilizzo di LO identifica il processo di apprendimento come somministrazione di porzioni di informazione decontestualizzati, somministrati agli studenti che metteranno insieme le informazioni fornite loro per formare le loro competenze. E’ una concezione dell’apprendimento molto vicina all’addestramento. Certamente i LO sono utili quando si deve addestrare un gruppo di persone ad utilizzare una macchina industriale o un software per produrre siti. Sono molto meno utili se si intende l’apprendimento come processo che forma l’interezza della persona umana attraverso l’interazione con l’ambiente, attraverso la relazione con altre presone, attraverso la creazione condivisa di nuove conoscenze.
Infine sgancia il percorso di apprendimento di un o una discente da quel complesso processo che è molto di più che il calcolo algoritmico dei contenuti fruiti.

Uso dei dati: privacy, controllo e valutazione

Dal punto di vista dell’uso dei dati, e della relativa utilità, prodotti da studenti e docenti, va tenuto conto che, rispetto alla fase del lockdown, c’è stato un pronunciamento delle Corte di Giustizia Europea che dovrebbe cambiare totalmente il modo in cui le nostre istituzioni affrontano la questione delle piattaforme e del cloud. La Corte di Giustizia Europea ha invalidato l’accordo, detto “Privacy Shield”, tra l’Unione Europea e gli Usa (Sentenza del 16 luglio 2020 nella causa C-311/18 promossa dall'attivista Maximiliam Schrems). Che vuol dire? Significa che secondo l'Unione Europea le norme per tutelare la protezione dei dati personali in vigore negli USA e applicate dalle imprese statunitensi non sono adeguate a quelle che la UE garantisce ai propri cittadini.
In pratica, con questo pronunciamento i dati dei cittadini italiani non possono essere inviati e archiviati negli USA. Ovvero tutte le aziende che utilizzano servizi cloud basati perlopiù in territorio statunitense (Amazon, Microsoft Azure) dovrebbero spostarli in Europa. Inoltre Facebook, Google, Tik Tok e via dicendo non possono più usare i dati degli utenti elaborandoli e archiviandoli negli USA, il che significherebbe che quei servizi non potrebbero più funzionare. Lo testimoniano le dichiarazioni di Yvonne Cunnane, responsabile protezione dati di Facebook Irlanda, che dichiara: ‘Con lo stop al trasferimento dati degli utenti europei negli Usa non è chiaro come Facebook ed Instagram potrebbero ancora funzionare nella UE’.
Il pronunciamento impatta anche le piattaforme di Didattica a Distanza e le videochat che memorizzano i dati degli utenti fuori dall’Europa: Google, Office 365, Zoom, etc. In teoria non essendoci più un accordo con gli USA che tuteli la privacy degli utenti europei, queste piattaforme non dovrebbe più essere accessibili dall’Europa. Al momento non è così, ma ci si domanda se il Ministero dell’Istruzione sia a conoscenza del pronunciamento della Corte Europea. Probabilmente no, non si spiega altrimenti l’indicazione di utilizzare piattaforme proprietarie che, da quello che è dato saperne, inviano i dati di studenti e insegnanti negli USA.

Peraltro la questione dell’utilizzo dei dati ha a che fare con due altre importanti questioni.
La prima è relativa al controllo del lavoro dei docenti. Siamo certi che la presenza di una webcam in classe che riprende tutte le attività dei docenti non leda i diritti degli insegnanti in quanto lavoratori? Siamo certi che non si caratterizzi come un elemento di controllo del lavoro dei docenti e quindi possa essere considerata una pratica anti-sindacale? Qualche dubbio se lo pone anche Francesco Sinopoli, segretario generale della Federazione dei Lavoratori della Conoscenza – CGIL, in una lettera ai rettori universitari.

La seconda è altrettanto importante ed è relativa alla valutazione degli studenti. Gli studenti della DaD possono essere oggetto di forte controllo ed analisi dei dati prodotti attraverso le tecniche definite di “learning analytics”. Si tratta di tecnologie che, analogamente con quanto avviene nelle grandi piattaforme dei Big Tech che attraverso l’analisi dei dati profilano le persone, hanno lo scopo di profilare gli studenti, valutarne lo stile e il grado di apprendimento e addirittura in alcuni casi hanno anche la pretesa di predire le possibilità di successo del percorso di apprendimento del singolo studente. Sono pratiche diffuse soprattutto in ambito universitario, e in particolare nelle piattaforme MOOC (Massive Open Online Courses) in cui l’attributo Open non è tanto inteso come aperto alla possibilità di apprendimento per chiunque, quanto come aperto alla misurazione, al confrontabile, all’analizzabile. D’altra parte, da organizzazioni che danno sempre meno peso alla relazione umana nel processo di insegnamento/apprendimento, queste tecniche sono manna dal cielo. Se poi ai learning analytics si aggiunge la didattica gamificata, che prevede premi al completamento della lettura o visione di contenuti, o alla corretta soluzione di esercizi, i dati numerici di ogni studente diventano sempre di più. La valutazione dello studente attraverso i dati numerici memorizzati dalle piattaforme diventa sempre maggiore a discapito della “gioia” di apprendere.
Sappiamo che i processi di apprendimento sono processi che hanno bisogno di tempo, di relazioni umane, di pazienza, di condivisione, di tempo per poter sbagliare. Se è fatta a distanza poi ha bisogno di accortezze e disponibilità alla sperimentazione.

Piattaforme e software libero
In Italia esiste una legge (legge 7 agosto 2012, n. 134) e due articoli (il 69 e il 69) del Codice dell’Amministrazione Digitale (CAD) che a vario titolo invitano le Pubbliche Amministrazioni ad utilizzare software Libero o Open Source (F/LOSS: Free/Libre Oper Source Software) a parità di funzionalità.

Purtroppo la legge è largamente disattesa. Molto raramente gli acquisti di software da parte delle PA privilegiano il software libero o Open Source. Nessuna sorpresa quindi se il Ministero dell’Istruzione consigli delle suite per la didattica a distanza proprietarie: lo sono tutte e tre quelle consigliate nel sito del Ministero.

Lo stupore però arriva quando il fondo per l’innovazione di Cassa Depositi e Prestiti finanzia parte di un aumento di capitale di 6,4 milioni di euro di WeSchool, la piattaforma per la Formazione a Distanza di TIM il cui codice sorgente non è aperto. Cassa Depositi e Prestiti è una società per azioni controllata dal Ministero dell’Economia e delle Finanze, in ultima analisi utilizza e investe denaro pubblico. Certo la piattaforma è italiana, non ha quindi, almeno formalmente, i problemi legati alla difesa della privacy che hanno le azienda USA e farà contenti i sovranisti digitali italiani, ma è un software proprietario. Non sarà possibile per nessuno utilizzarlo (a meno che sia concesso in licenza dal proprietario), studiarlo, ridistribuirlo, migliorarlo. Sono le 4 libertà fondamentali del Software Libero e Open Source che, pur tra molte ipocrisie economiche e cavilli legali, sono le uniche garanzie che un investimento pubblico non venga privatizzato da un’azienda che farà profitti vendendo qualcosa che ha costruito con il contributo di tutti coloro che pagano le tasse al governo italiano.
Sin qui si potrebbe intendere che si tratti di una mera questione di principio. Non è così, o per lo meno non è solo questo il punto. Come ho già scritto nell’articolo presente in “Formare a distanza?”, l’adozione del software libero in ambito didattico costituisce la condizione per la libertà di insegnamento perché se “una piattaforma” proprietaria “è disegnata per un certo tipo di interazione e relazione tra gli umani invece che per un altro (collaborativa/gerarchica), sarà molto difficile «forzarla» in modo da usarla diversamente da come è stata progettata”. Viceversa se è una piattaforma F/LOSS è possibile modificarla secondo le proprie esigenze didattiche.

Ancora più importante del finanziamento di Wescool è stato un’altra caso che mi ha lasciato stupefatto. Il consorzio GARR è la rete nazionale a banda ultralarga dedicata alla comunità dell’istruzione e della ricerca. Si tratta di un’associazione senza fini di lucro fondata sotto l’egida del Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca. Gli enti soci sono CNR, ENEA, INAF, INFN e tutte le università italiane rappresentate dalla Fondazione CRUI.
Durante il lockdown GARR ha messo a disposizione gratuitamente alcuni strumenti per la DaD basati su software F/LOSS ma non è mai stato menzionato, né consigliato dal Ministero dell’Istruzione che pure è tra coloro che hanno contribuito a dar vita al consorzio. Eppure ha una policy per la protezione della privacy in cui dichiara che non usa i dati degli utenti per scopi di profilazione. Eppure GARR mette a disposizione un servizio di cloud computing dedicato a scuole, università e centri di ricerche, che consente di installare in maniera molto semplice, nei server messi a disposizione, piattaforme e strumenti F/LOSS per la didattica. Anche in questo caso però l’indicazione alle scuole e università da parte del Ministero è stato ed è tutt’ora quello di servirsi dei cloud e delle piattaforme proprietarie delle grandi multinazionali della tecnologia (Google, e Microsoft in primis).

Il cloud offerto dal GARR insieme alla scelta di utilizzare software libero per la didattica potrebbe essere la base che consentirebbe alle scuole e alle università di organizzarsi secondo le proprie esigenze, invece che secondo le esigenze delle grandi multinazionali, e valorizzare le competenze territoriali affidandosi a entità sociali ed economiche locali. Ne ho parlato in "La libertà di insegnamento. Sottotitolo: il software deve essere libero" Da: Formare… a distanza? ~ Didattica fuori dall'emergenza! ~ CC 4.0 (BY-NC-SA)

Il motivo per cui il MIUR non abbia segnalato e invitato le scuole e le università ad utilizzare i servizi del GARR resta un Ministero tutt’ora irrisolto.

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